La competenza territoriale è collegata dall'art. 404 c.c. in via esclusiva al luogo di residenza o domicilio del beneficiario. Viene così rimarcata quell'esigenza di prossimità e facilità di accesso al giudice monocratico investito delle richieste di sostegno. L'utilizzo dei concetti di "residenza" e "domicilio" non desta particolari perplessità interpretative: va tuttavia sottolineato come l'aver previsto in via alternativa paritaria e non sussidiaria il criterio del domicilio rispetto a quello della residenza (vds. il diverso ordine previsto in genere dall'art. 139 ult. co. c.p.c.), possa comportare in concreto un maggior numero di procedimenti avanti al GT del luogo ove l'anziano o il disabile è ricoverato o assistito rispetto a quello della sua (soltanto formale) residenza, e tanto anche in collegamento con la legittimazione ad agire che è riconosciuta, dall'art. 406 co. 3 c.c., ai responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona.
Il problema del rapporto fra dimora abituale e residenza, che in termini letterali può sembrare paritariamente alternativo, costituisce questione su cui è intervenuta una recente decisione resa da Cass. 17 aprile 2013, n. 9389, la quale ha stabilito la prevalenza del criterio della "dimora abituale" di cui anche all'art. 407 c.c., stante le ineludibili esigenze di contatto diretto fra il beneficiario ed il G.T. a lui più prossimo in via effettiva e non meramente anagrafica, ritenendo che la prevalenza di dati meramente formali finirebbe per precludere o, comunque, rendere estremamente difficoltosa quell'esigenza di interlocuzione diretta del beneficiario che le norme mostrano, in più punti, di voler favorire. Si è altresì sottolineato come nella Convenzione dell'Aja per la protezione degli adulti incapaci del 13 gennaio 2000 si parli di "residenza abituale" per individuare la competenza giurisdizionale nelle controversie transfrontaliere e come in questa materia non possa porsi un problema di perpetuatio jurisdictionis, ma semmai, al contrario, un'esigenza di aggiornamento e di effettiva vicinanza del foro competente rispetto al luogo in cui il soggetto beneficiario è chiamato — anche in corso di procedura o dopo la nomina iniziale — ed esprimere i propri bisogni e necessità, dimora effettivamente ed abitualmente.
Ci si è chiesti, altresì, se all'ADS sia applicabile l'art. 343 co. 2 c.c., che regola il trasferimento di competenza al modificarsi del domicilio del tutore. Decidendo un regolamento d'ufficio di competenza, Cass., 16 novembre 2007, n. 23743 ha risposto negativamente: "...a parte le differenze funzionali tra i due istituti giuridici, l'applicazione analogica dell'art. 343, 2° co. c.c. è impedita dal fatto che la norma costituisce puntuale applicazione dell'art. 45, 3° co. c.c., secondo la quale l'interdetto ha il domicilio (necessario) del tutore, mentre il domicilio del beneficiario dell'assistenza di sostegno si determina alla stregua dell'ordinario criterio di cui al primo comma dell'art. 45 c.c. (per analoga argomentazione in tema di inabilitazione, v. Cass. 20164/2004). D'altra parte se è comprensibile che la tutela possa (ma non debba) essere trasferita nel luogo in cui ha domicilio il soggetto che integralmente si sostituisce all'interdetto, meno comprensibile sarebbe il trasferimento dell'amministrazione di sostegno dal luogo ove il beneficiario risiede o ha il domicilio, perché, a differenza dell'interdetto, egli, anche dopo la nomina dell'amministratore, è legittimato ad interloquire con il giudice tutelare per sollecitare l'adozione dei provvedimenti che ritenga più adeguati alla propria protezione (art. 410, 411, 413 c.c.)".